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Italia

   
   




















 


Finis Terrae. Viaggio dove l’Italia finisce, tra le anime multiple dei quattro estremi geografici del paese e le aree alle loro spalle: Otranto, Puglia (est); Portopalo, Sicilia (sud); Frejus, Piemonte (ovest); Vetta d’Italia, Alto Adige (nord). Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del luglio 2011

Estremo Est. Il sole allo zenit annulla le ombre. Rende ancor più bianca la pietra del piazzale, fa risaltare le linee pure del quadrilatero della basilica-fortezza, il perimetro ad archi. Un gruppo di suore attraversa lieve lo spazio per affacciarsi sul belvedere, accanto al faro. L’aria è sospesa, la scena aperta. Sembra un luogo astratto disegnato da un De Chirico levantino. Dev’esserci qualcosa di raro. Sarà il promontorio che si butta in mare, l’incrocio dei venti, l’orizzonte circolare. Il capo è da millenni un luogo sacro. Su questa roccia è sorto prima un tempio a Minerva, poi un santuario. La tradizione narra che Pietro, sbarcato dalla Palestina, vi fondò «il primo luogo cristiano d’Italia, poi dedicato alla Madonna», spiega Don Giuseppe Stendardo, parroco della basilica-santuario Santa Maria De Finibus Terrae. Qui la fine della terra è un toponimo e una certezza geografica. Un cartello recita “benvenuti, welcome, de finibus terrae”. Oltre il capo di Santa Maria di Leuca non c’è nulla, attorno sì. «Quasi tutti i giorni si vedono le montagne dell’Albania; alcune isole greche, la mattina presto; la Calabria, al tramonto», racconta Michele Rosafio, addetto alle strutture ricettive del santuario. «Sembra di essere davvero alla fine del mondo quando arriva un temporale dal mare, con nuvole nere e fulmini che cadono dappertutto in acqua». L’incontro dei due mari, Jonio e Adriatico, è un’attrattiva turistica e c’è anche nelle cartoline, «in realtà è a Otranto, ma se i turisti lo vogliono credere li lasciamo fare», confessa Michele. Attorno, la costa è aspra e felice, ulivi, case tra i muri a secco, qualche solito abuso all’italiana nella macchia mediterranea. Risalendo la costa, 45 km più su, si raggiunge il punto più orientale d’Italia: Capo d’Otranto, Punta Palascìa, 18°31’14” di longitudine est. Dalla Puglia comincia il viaggio verso le finis terrae - i punti più a est, sud, ovest e nord d’Italia - dove quel nome indica ancora qualcosa. Per Silvia Godelli, assessore regionale al Mediterraneo, Cultura e Turismo, «finis terrae è una definizione letteraria carica di suggestione. Non è un concetto limitativo, anzi. Indica uno sconfinamento al di là del mare. Il Salento è un luogo di collegamento, di transiti da e verso Oriente, nostro dirimpettaio, dove culture differenti si sono sedimentate attraverso il dialogo, la curiosità verso l’altro». Da qui si può osservare la prima alba d’Italia. L’Albania è a 35 miglia. «Nel 1998, durante la crisi del Kosovo, alle spalle del faro vennero montate batterie di missili», ricorda Elio Paiano, giornalista e storico locale; «d’altra parte questa è stata una delle frontiere della Cortina di Ferro. L’ultimo guardiano del faro ad abitare a Palascìa mi raccontava che, nel Canale d’Otranto, fino agli anni Sessanta, gli albanesi facevano le esercitazioni e sparavano, tre volte al dì, in questa direzione». Il contatto con l’Oriente è stato a volte terribile. In una cappella della Cattedrale di Otranto è conservata la pietra su cui nel 1480 vennero decapitati 800 uomini sopravvissuti alla battaglia contro le truppe di Gedik Achmet Pascià, tutti maschi da 14 anni in su che avevano rifiutato di convertirsi all’Islam. Le ossa sono disposte ordinatamente in grandi armadi a muro protetti da vetri, i teschi rivolti verso chi guarda. Dal porto si vedono uscire navi che trasportano merci verso est. Sulla passeggiata lungo il mare tira sempre vento. L’Oriente in fondo è là, di fronte. «Tra le regioni italiane, la Puglia è quella che nel 1991 con l’arrivo delle navi degli albanesi ha ricevuto per prima uno schiaffone, che prima delle altre ha cambiato la percezione di sé», sostiene il sociologo Franco Cassano, «perché ha capito che era finita la storia segnata dalla divisione del mondo in due e che si riaprivano i contatti con quello che era al di là dei confini. Che invece di essere il lembo estremo di un nord ricco e benestante era un luogo di passaggio, di contatto con gli altri, dove gli altri arrivavano». Al Centro di primissima accoglienza dicono che si registrano ancora arrivi di clandestini, ma poco rispetto agli anni Novanta quando Otranto era la porta d’accesso all’Italia. Contatti di oggi, passaggi di ieri. Dopo la vittoria di Lepanto del 1571, la minaccia saracena si attenua e anche l’architettura cambia. Il sistema di torri, sulla costa, di masserie e castelli, all’interno, si converte. Le strutture difensive si trasformano in residenze nobiliari, prevale l’estetica, trionfa il barocco. Lecce è il retroterra sontuoso. «Il Salento, quasi improvvisamente, è diventato di moda. Prima si scappava, ora si ritorna; prima dicevo sono pugliese, ora sono salentino», sintetizza il giornalista Pierpaolo Lala. La riscoperta della musica popolare, il successo di diversi gruppi e il boom del fenomeno taranta hanno contribuito a rafforzare l’identità. In una delle location di Mine vaganti, Chiara Torelli, attrice per divertimento e dentista di professione, osserva che «una luce così, a metà tra quelle europea e nordafricana, c’è solo qui e ha contribuito a far diventare il Salento un set cinematografico». Il fermento va in direzioni multiple. Alcuni vivono l’identità in maniera radicale, al punto da volersi separare. Paolo Pagliaro, patron di TeleRama, Presidente del Movimento Regione Salento, denuncia «il Bari-centrismo della spesa pubblica e delle scelte politiche ed economiche» e propone, in ottica federalista, «una nuova Regione, il Salento, per raggruppare l’omogeneità culturale e la fusione di esperienze storico-antropologiche che in passato hanno costituito la Terra d’Otranto», in pratica le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Si lascia l’Adriatico e il Salento dalla sua porta nord-ovest, Gallipoli, lungo la statale Jonica. Il sole tramonta sui pescherecci che rientrano ...
 
   
       




















 


Dentro il Quirinale. La vita quotidiana di chi vive e lavora nel Palazzo per eccellenza delle istituzioni italiane, dai giardinieri ai consiglieri, sede di papi e re e dei Presidenti della Repubblica. Un mondo a parte, la “casa degli italiani”. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del gennaio 2011

Il suo mestiere è regolare il tempo. La ricarica avviene due volte a settimana. Tranne che per gli orologi che hanno un ciclo di ventiquattro ore. Lungo corridoi affrescati, saloni delle feste, logge d’onore. Impiega fra due e tre ore, per fare il giro dell’intero palazzo. Passando da una pendola in bronzo dorato e tartaruga del Seicento stile Luigi XIV a un orologio astronomico in alabastro dell’Ottocento con calendario perpetuo. Controlla e carica. Non ci sono pile, «trasferisco la mia energia agli orologi attraverso la molla: lo faccio da ventidue anni, prima di me lo hanno fatto per secoli i miei predecessori, dopo di me lo faranno altri», dice Stefano Valbonesi, orologiaio a palazzo. Fino a due anni fa, per il passaggio dell’ora legale, capitava anche di farlo a notte fonda, nelle mani una lampada e un enorme mazzo di chiavi. «Percepivo di più come doveva essere la vita a palazzo nei secoli passati», i passi dei papi, dei re, di cortigiani e ministri. Qui il tempo del potere non si è mai fermato. Nel portico davanti allo scalone d’onore vi è una lapide con incisi tre elenchi. Trenta papi, quattro re, dieci presidenti della Repubblica. Manca l’ultimo, Giorgio Napolitano, perché in carica. Secoli di storia, riassunti in un metro e mezzo per due. Il potere ha soggiornato e abita qui. «Il Quirinale», afferma Louis Godart, Consigliere del Presidente per la conservazione del patrimonio artistico, «è un luogo unico, sede dell’auctoritas da cinque secoli, nessun altro palazzo al mondo ha questo spessore cronologico enorme». Oggi è la sede della Presidenza della Repubblica, “il Colle” citato quotidianamente in cronache e dibattiti. L’espressione massima delle istituzioni e, allo stesso tempo, un museo. La “casa comune degli italiani”, si sente ripetere spesso. Perché, come afferma con forza lo stesso Giorgio Napolitano, il palazzo «non può che essere un museo aperto ai cittadini d’Italia e del mondo». Si anima con i visitatori della domenica, le scolaresche, i gruppi. Per i concerti o in occasione del 2 giugno, unica data in cui aprono i suoi celebri giardini. Il Quirinale è anche una cittadella a sé stante, proprio per come è stato progressivamente pensato ed edificato, sul più alto dei sette colli. Una reggia repubblicana con mura, porte, guardie, controlli. «Il luogo più sicuro d’Italia», dicono con orgoglio. Un mondo a parte. Quando si passeggia intorno al suo perimetro, se ne coglie la compattezza da roccaforte. Appena fuori le mura, vicino all’antica Porta della Panetteria, un mercatino resiste, tra venditori ambulanti e turisti che sciamano verso Fontana di Trevi. Da fuori, si nota ancor più il colore del palazzo di un bel chiaro che richiama il travertino, come si voleva in origine per sottolinearne la monumentalità. Nella Coffee House dei Giardini si trova un quadro della piazza del Quirinale del 1733 di Giovanni Paolo Panini, dove il palazzo appare di un celestino “color dell’aria” la cui formula segreta sarebbe conservata negli archivi vaticani. Nel tempo il colore cambierà ancora, fino ad arrivare al mattone dei Savoia. Per tornare al travertino, color della pietra, di oggi. Un palazzo di quasi cinque secoli, poggiato su millenni di storia, è in sé un oggetto di archeologia. Per le continue modifiche e ristrutturazioni che hanno coperto o sostituito altro, gli allargamenti, le edificazioni successive. Un luogo dove è stato difficile scavare. Sfogliando qualche libro sul palazzo o curiosando nei suoi corridoi dove sono appese riproduzioni d’epoca, si osservano affreschi del ‘500, oli su tela del ‘700, disegni, acquerelli, illustrazioni, incisioni all’acquaforte, tempere su pergamena, dedicate alle vedute del Quirinale, della sua facciata e della Piazza di Monte Cavallo (l’altro nome con cui è conosciuto il colle per la presenza dei due colossali gruppi scultorei dei Dioscuri con i loro cavalli). Si assiste all’ingresso e all’uscita dei cortei delle delegazioni diplomatiche straniere in visita alla Santa Sede, alle benedizioni, alle feste barocche, ai carnevali sulla piazza, al papa costretto dai francesi a lasciare il Quirinale per essere condotto in esilio. Ci si accorge che a volte l’obelisco c’è, altre no; del diverso posizionamento dei Dioscuri; della grandezza e larghezza delle vie che varia. È come assistere allo srotolamento di un film su quei secoli, un po’ in bianco e nero, un po’ a colori. Con profusione di cavalieri, dame, carrozze, sfondi di rovine di terme e templi. Il palcoscenico è la piazza che muta per farsi teatro urbano, scenografia classica della vita cerimoniale del palazzo. Si realizza quanta storia sia passata da qui, di quanti eventi siano state testimoni e quinte le sale e le mura di questo palazzo. Il Quirinale condivide con il Palatino le più antiche memorie dell’Urbe. Una decina di anni fa, la posa in opera di impianti tecnologici in un’area dei giardini ha portato ad avviare una campagna di scavo e permesso di ritrovare alcuni resti di domus signorili datate tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C. Oggi, una botola alla James Bond con apertura meccanica, che una volta chiusa si mimetizza con i viali dei giardini, permette di accedere a un frammento della Roma imperiale. Un ambiente, dal microclima protetto, di case con porzioni di mosaici coesiste con i tubi del condotto tecnologico, che scorre accanto, che lo rendono simile a un Beaubourg ipogeo. La presenza dell’uomo sul colle risale al VI secolo a.C., con stirpi di origine sabina. Quirino - da cui deriva Quirinale - è il nome che Romolo divinizzato assume dopo la morte e l’ascesa al cielo. Sul colle doveva sorgere il suo tempio, che gli archeologi stanno ancora cercando. Il colle, nel tempo, ha conosciuto poi un sovrapporsi di fasi storiche, civiltà, passaggi. «In una delle aree di scavo», fa notare Maria Giuseppina Lauro dell’Ufficio per la conservazione del patrimonio artistico del Quirinale, «è stato ritrovato un grande bruciato, segno delle invasioni barbariche che venivano da nord, lungo la Nomentana. Dopo aver catalogato e studiato, si è ricolmato per gli archeologi del futuro. Scavare in un giardino storico, un monumento in sé, è cosa delicata. I giardini sono un bene da tutelare così come gli affreschi, le gallerie, le sale» …
 
   
     


















 


Profondo Nord. Viaggio alle Isole Svalbard, scenario di uno dei capitoli più avventurosi della storia delle esplorazioni: la conquista del Polo Nord. Sulle tracce degli uomini della Tenda Rossa, tra orsi bianchi e trichechi, antiche stazioni baleniere e centri di ricerca scientifica. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del marzo 2010

Le lastre di ghiaccio attorno alla nave che avanza si fanno sempre più fitte, trasformando il giardino di piccoli iceberg in una distesa compatta. Il sole rimane alto. Nell’estate polare non c’è buio, non c’è notte. Ogni tanto banchi di nebbia improvvisi immergono in un crepuscolo lattescente. La nave-spedizione per turisti arranca, accerchiata dal pack. Toccato l’80° parallelo di latitudine nord, si brinda con vodka all’exploit geografico. Il Polo Nord è un migliaio di chilometri più su; Capo Nord, punta settentrionale del continente europeo, 1.000 chilometri a sud. La banchisa diventa via via più densa, fino a saldarsi. Non si passa, bisogna tornare indietro. Succede oggi, succedeva nel passato. Lo stesso mare ghiacciato aveva bloccato il navigatore olandese Willem Barents a queste latitudini a fine ‘500. I geografi dell’epoca erano convinti che la via più breve per l’Oriente passasse da settentrione invece che da sud; nei loro atlanti la Siberia era molto meno estesa della realtà. Il sogno, soprattutto per le potenze marinare del Nord, Inghilterra e Olanda (Spagna e Portogallo avevano già trovato la via verso est e scoperto le Americhe), era poter raggiungere la Cina attraverso il Polo Nord, aprire un passaggio a nord-est. Tra il 1594 e il 1596 Barents cercò il passaggio, ma non riuscì a vincere la barriera dei ghiacci. Non riuscì nemmeno a tornare, morì dopo aver svernato a 76° nord, la prima volta per degli europei a una latitudine così alta. Il resoconto dei suoi viaggi, pubblicato nel 1609, fu un bestseller internazionale. Il frontespizio dell’originale recitava: “Vera e perfetta descrizione dei tre viaggi, così strani e meravigliosi che mai se ne udì l’uguale, compiuti per tre anni di seguito dalle navi d’Olanda e Zelanda sulle coste settentrionali di Norvegia, Moscovia e Tartaria verso i regni di Cataio e di Cina”. I suoi racconti mirabolanti delle gran quantità di balene, foche e trichechi avvistate nei mari intorno a un’isola sconosciuta dalle “cime aguzze” (che per questo aveva chiamato Spitsbergen) crearono un enorme interesse, facendo decollare verso l’isola, la principale di un arcipelago disabitato, la prima “corsa all’oro” europea, l’oro dell’olio delle balene. Gli inglesi arrivarono nel 1610, gli olandesi un anno dopo, inaugurando una stagione di massacri (di balene, foche, trichechi) e il popolamento delle Svalbard (come fu chiamato l’arcipelago, in norvegese “coste fredde”). Oggi le balene non ci sono, quasi, più. Solo negli ultimi anni si è tornati ad avvistare, sporadicamente, qualche esemplare di balena franca oltre alle beluga. Oggi, alle Svalbard, a regnare è l’orso polare. Nell’area compresa tra le Svalbard e la Terra di Franz Josef si stima che ce ne siano 3 mila, quasi più degli uomini (alle Svalbard i residenti sono 2.800). Nel corso dei secoli l’orso era stato pesantemente oggetto di caccia; dal 1973 è sotto tutela. In un opuscolo turistico di qualche anno fa c’è una foto in cui si vede un orso appoggiato al parapetto di una nave con un turista a non più di un metro intento a fotografarlo. «Oggi un comportamento del genere sarebbe impensabile», commenta Christopher, una delle guide a bordo. «Gli orsi possono attaccare improvvisamente e sono velocissimi, più di noi. Non si scherza, l’orso polare è un predatore, il più grande carnivoro esistente in natura. Qui si gira armati». Alle Svalbard dappertutto ci sono avvisi di pericolo, in cui si consiglia di munirsi di una propria arma se ci si allontana dagli insediamenti principali. Nei tour c’è sempre una guida armata che anticipa e copre gli spostamenti dei visitatori. Osservare l’orso in azione è assistere a una scena che qui si ripete da millenni. Dal ponte della nave si avvista un maschio sul pack lontano in una baia ghiacciata, intento ad avvicinarsi a una foca dagli anelli ignara del pericolo, lo si segue con il cannocchiale fino al balzo finale, al ghiaccio che si macchia di sangue, al pasto divorato in compagnia di una coppia di uccelli che aspetta qualche resto. Un mondo antichissimo e appartato, eppure in pericolo. Ricerche recenti avvertono che, se le stime di scioglimento della banchisa polare dovute al riscaldamento globale si confermassero, due terzi degli orsi polari (la popolazione totale è stimata tra 22 mila e 27 mila esemplari) potrebbero scomparire da qui al 2050. Un posto isolato, in una delle aree più remote del mondo. Le Svalbard, disposte tra il 74° e l’81° parallelo nord, sono «così lontane che sono fuori dalle mappe», afferma lo scrittore olandese Cees Nooteboom. Un mondo per il 60% sempre coperto da ghiaccio. Senza strade, a parte nei pochissimi insediamenti (si gira in barca, motoslitta, elicottero, aereo), o grandi segni di intervento umano. Per metà riserva naturale, protetto dopo essere stato depredato. Situato nel punto in cui c’è il maggior scambio di flussi d’acqua tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Artico. Una natura aspra di montagne, fiordi, baie, vallate, promontori, scogliere, isolette, morene, ghiaccio eterno, tundra, addolcita dalla Corrente del Golfo che bagna le coste e mitiga il clima. Abitata, oltre che dagli orsi, da foche, trichechi, renne, volpi, sterne, ededroni, gazze, gabbiani. E da ricercatori, studenti, minatori ...
     
   


















 


Provenendo da Canterbury e dalla Francia, nel Medioevo i pellegrini diretti alla Tomba di Pietro attraversavano l'Italia lungo un fascio di cammini noto oggi come Via Francigena, oltre 900 chilometri dalle Alpi a Roma. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del luglio 2009

Da mille anni è una casa senza chiavi. «Qui una chiave non c’è mai stata», racconta frate José, «né per la porta esterna, né per le stanze». È primavera avanzata, ma sul colle ci sono ancora metri di neve. Nell’aria pungente dei 2.500 metri di altitudine, arrivano alla spicciolata i viandanti di oggi, ai piedi sci o ciaspole, più dal versante svizzero che da quello italiano dove il pericolo di valanghe è maggiore. Da millenni il Gran San Bernardo registra passaggi; dai romani, che qui eressero un tempio per guadagnarsi il favore degli dei, a Carlo Magno e Napoleone. Per la via che da nord portava verso Roma, chiamata Francigena perché veniva dalla terra dei Franchi. Oggi, il Gran San Bernardo segna l’inizio del tratto italiano di quella via che, dopo più di 900 chilometri, porta alla Tomba di Pietro. Nel 1050, un monaco fatto poi santo, Bernardo da Mentone, fondò sul colle un monastero con annesso ospizio per accogliere chi transitava. Mercanti, soldati, pellegrini, alla mercè di tempeste e valanghe, fatica e briganti. All’inizio sottoterra, in locali ricavati scavando la roccia. Oggi in camere e camerate, con doppi vetri per non far passare freddo e vento. Porte aperte, sempre. «A cristiani o no. Per noi dell’ordine di Sant’Agostino, a cui Bernardo affidò l’ospizio, è la vita umana e non la fede a essere decisiva», spiega frate José. «In passato», continua, «ogni giorno due confratelli partivano dall’ospizio, uno verso sud, l’altro verso nord, per soccorrere chiunque potesse essere in difficoltà. Anche oggi la gente ha bisogno di sguardi di accoglienza, sia chi crede sia chi ha una vita interiore diversa». Una coppia - lei tedesca, lui americano, mezza età, istruttori di danza - arriva ansimante, zaini in spalla, e sale ancora più su, oltre il laghetto ghiacciato. Cercano il punto giusto dove celebrare la piccola cerimonia per cui sono venuti fin qui. In un’urna a forma di piramide hanno le ceneri di Major, in una busta trasparente quelle di Jadie, i loro due cani San Bernardo. Sono qui per «farli tornare da dove venivano». I grandi cani che hanno preso il nome dal colle arrivarono nel Settecento, all’inizio addestrati per battere le tracce e ritrovare con l’olfatto il cammino sotto la neve fresca, poi per il recupero dei dispersi. Dagli anni Sessanta, con l’introduzione dell’elicottero per i salvataggi, i cani San Bernardo non sono più utilizzati perché troppo pesanti. Li hanno trasferiti a valle; d’estate, per la gioia dei turisti, ne portano su una decina, marketing oblige. Dal colle passava chi proveniva da nord e, specularmente, chi risaliva per andare al di là delle Alpi. Tra questi l’arcivescovo Sigerico, che nel 990 viaggiò da Canterbury a Roma per ricevere da Papa Giovanni XV il pallium, la veste di lana ornata con la croce che ne simboleggiava l’investitura, e poi annotò nel diario i luoghi delle sue 79 tappe lungo la via del ritorno. Quel diario, oggi alla British Library di Londra, ha costituito la base per individuare la direttrice geografica di comunicazione tra la penisola e l’Oltralpe, la Francia, che nel Medioevo significava anche parte della Germania. La Via per questo chiamata Francigena è stata riconosciuta nel 1994 Itinerario culturale europeo dal Consiglio d’Europa: 1.600 chilometri da Canterbury a Roma, passando per Francia e Svizzera. Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha fatto realizzare la mappatura col Gps del tratto italiano della Francigena, dal Gran San Bernardo a Roma, seguendo le tappe di Sigerico. Un percorso a piedi, fattibile e il più possibile in sicurezza, in un territorio di grande attrazione naturalistica intriso di storia e arte ma fortemente antropizzato, pieno di ostacoli, recinzioni, asfalto, traffico. Per Alberto Conte, autore della mappatura ufficiale, «le antiche strade non esistono più o spesso sono state rimpiazzate da quelle moderne. Se oggi vogliamo rivivere qualcosa di simile al pellegrinaggio di un tempo possiamo farlo ricreando le condizioni di tranquillità, silenzio e, per quanto possibile, immersione della natura in cui camminavano i pellegrini». L’ufficializzazione del percorso ha creato controversie e malumori. Il cammino è fatto da chi cammina non dai ministeri, ha rivendicato qualche associazione; realismo, hanno risposto gli amministratori. Alla fine un percorso ufficiale c’è e coesiste con le sue variabili. La via stessa invita al relativismo. Era un organismo vivo, in trasformazione continua. Dipendeva da guerre, alluvioni, peste, clima, orografia variabile. Sottolinea lo storico medievalista Franco Cardini che «nel Medioevo le vie non sono mai delle vie consolari o delle autostrade, ma fasci di sentieri di ghiaia, di terra battuta, che attraversano con molte varianti un territorio». Intreccio e insieme di percorsi, più che linea, singolo tracciato. «Lo spazio medievale», continua Cardini, «è uno spazio che l’uomo medievale non vede, come gli antichi romani o come noi, come qualcosa che si può fendere per mezzo di una linea retta; ma lo vede come qualcosa di fruibile per mezzo di un reticolo di vene e di arterie, che ogni tanto ha qualche passaggio obbligato». Non una strada, ma un sistema viario, un insieme di percorsi confluenti in alcuni punti nodali: i porti, i guadi, gli incroci, i passi, le città ...
 
   
 




 

La storia di un uomo che ha scelto di vivere nella natura, a piedi scalzi, e il luogo dove vive - la Val Grande - un parco del Piemonte considerato la più vasta area wilderness d’Italia. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del gennaio 2009

Usa l’acqua delle sorgenti e la cenere dei fuochi per lavarsi e pulire. Va scalzo, sempre, su qualunque superficie, con qualsiasi clima, per recuperare il contatto diretto con la terra. «La montagna è il mio guru, attraverso le prove quotidiane mi insegna l’umiltà. Per rispetto la calpesto a piedi nudi», racconta. Con il sole o il freddo, la pioggia o la neve, si veste con poco o niente, «in inverno mi copro soltanto la sera». Dorme per terra, in un bivacco. Mangia bacche, funghi, piante o ciò che trova abbandonato, recupera «gli avanzi degli altri», vive «di quel che la natura dà». Alterna periodi di dialogo e apertura a periodi di digiuno e silenzio, ormai familiare agli animali, che quasi non scappano più davanti a lui, e altro dagli uomini che avverte arrivare per l’odore del sapone sopra la pelle, del detersivo sugli indumenti che il suo olfatto percepisce a distanza. Lo chiamano il selvatico, l’eremita, l’uomo del bosco. 53 anni, milanese, un’infanzia difficile trascorsa tra collegi duri e nonni impietosi, ex-autista di scuolabus, Gianfry («così mi chiamavano i ragazzi che accompagnavo») da undici anni ha scelto di vivere in Val Grande, Piemonte settentrionale, fra il Lago Maggiore e la Val d’Ossola. Parco nazionale da quindici anni, la Val Grande è considerata la più estesa area di wilderness d’Italia, oltre che dell’intero arco alpino: la più grande porzione di territorio nazionale senza presenza umana, strade, insediamenti permanenti. Un mondo a parte, a 100 chilometri da Milano, dove la natura ha ripreso lentamente il sopravvento dopo l’abbandono post-Seconda Guerra Mondiale ...


 
         
 
       








 

In Etiopia, culla dell’umanità, con una delle più alte percentuali di ciechi e ipovedenti al mondo, due organizzazioni non profit italiane costruiscono pozzi, sostengono scuole e ambulatori. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del novembre 2008

Abel e Semira sono seduti al loro banco, uno accanto all’altra. Giocano, parlano fitto. Lei ha 6 anni, lui 8. Sieropositivi dalla nascita. Affetti da glaucoma, non vedono più. Semira è vivacissima, sempre in movimento, con la testa che si sposta di continuo per seguire ogni rumore che percepisce, quasi a voler catturare tutte le informazioni che la vista non le può più restituire. Sorride, fa smorfie, poi si placa improvvisamente, diventando seria. I suoi occhi sono enormi e vuoti perché, in assenza di liquido interno (l'umore acqueo) a sufficienza, la pressione oculare aumenta, l’occhio si dilata, la cornea si opacizza. Le mani sono il suo terminale sensitivo, giocano con mattoncini di plastica, imparano a leggere in braille: l’indice della mano sinistra sposta quello della mano destra che legge. «Il sinistro funziona come un cursore, il destro come uno scanner», sintetizza un maestro che segue un paio di allieve più grandi in grembiule blu. Nata venti anni fa, tra baracche e palazzi del cuore di Addis Abeba, la scuola integrata primaria della German Evangelical Church ospita bambini non vedenti e ipovedenti tra bambini normodotati, che imparano il braille, si affacciano all’uso del computer con programmi ad hoc, giocano con gli altri nel cortile della scuola, provano a non essere troppo diversi. Una cinquantina di bambini dai 5 ai 12 anni, provenienti da famiglie molto povere, affetti soprattutto da glaucoma congenito e opacità corneali da avitaminosi A. Per chi riesce a scorgere qualcosa, magari solo ombre, forme, chiarori, ma anche per i ciechi assoluti, meglio mischiarsi con chi vede che il ghetto isolato delle scuole speciali. Ad Addis Abeba sono giorni di orgoglio. Le celebrazioni del millennio - in Etiopia, che continua a seguire il calendario giuliano, il secondo millennio si è chiuso solo l’11 settembre - sono finite. Una settimana prima del passaggio al proprio 2001, il paese ha festeggiato solennemente il ricollocamento dell’obelisco di Axum, la stele antica 1700 anni restituita dall’Italia. Ma l’onda lunga delle vittorie in serie alle Olimpiadi di Pechino continua. Nella capitale un ospedale in costruzione è stato battezzato con il nome di Tirunesh Dibaba, la mezzofondista che ha realizzato la doppietta su 5 e 10 mila metri; mentre una strada è stata intitolata a Kenenisa Bekele, anch’egli capace di vincere a Pechino 5 e 10 mila metri, non lontana da quella che porta il nome del mostro sacro dell’atletica Haile Gebresilassie, che il 28 settembre ha stabilito a Berlino il suo ennesimo record del mondo (il 26° della sua carriera), questa volta della maratona. Orgoglio e sofferenza. I luccichii dello sport e della gloria passata (Etiopia culla dell’umanità, unico paese africano mai del tutto colonizzato, dal cristianesimo fiorente prima ancora del suo arrivo in Europa) e i punti di crisi del presente ...


 
       
         
 
       






 

Nella capitale culturale degli arbëreshë, gli italiani di lingua albanese, si celebra ogni anno un festival musicale, "piccola Sanremo d'Arberìa", occasione di identità. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia dell'ottobre 2007

I fiori sul palco sono di plastica, tutto il resto è vero. Le vallette, strette nei loro tubini, che consegnano targhe ricordo; i bravi presentatori che annunciano canzoni e ringraziano sponsor; le nuvole di fumo che fanno atmosfera. È passata mezzanotte nell’anfiteatro comunale di San Demetrio Corone, di una notte d’agosto chiara e con un bel vento che rinfresca l’aria e fischia nei microfoni (San Demetrio è al terzo posto tra i paesi più ventosi d’Italia). Gennaro De Cicco, professore di francese, allenatore della squadra di calcio locale, corrispondente di La Provincia, conduttore da sempre del Festival della canzone arbëreshe, proclama il vincitore. Applausi, grida, un gruppo di fan invade la scena, poi riparte la base musicale e Claudio La Regina riprende il suo canto contro ogni violenza sui bambini. Quest’anno, ventiseiesima edizione del festival, i chiaroscuri della realtà sono più presenti nelle canzoni in gara, tutte rigorosamente in arbëresh, la lingua della diaspora albanese, o shqip, la lingua dell’Albania. Emigrazione clandestina e guerre, venti di pace e profumi d’oriente, la tristezza delle partenze e il desiderio del ritorno, a casa, alla propria terra, quella d’origine o la nuova. Filone prevalente il melodico sentimentale (sole-cuore-amore), ma c’è spazio anche per le nuove tendenze: cori polifonici, orchestre samba-jazz, monologhi rap ...


 
       
         
 
       














 

La civilità delle Ville Venete, da Petrarca ai proprietari di oggi, ultimi castellani d'Italia. Reportage (testo+foto con Alessandro Barteletti) sul National Geographic Italia del giugno 2007

Per alcuni che la abitano è un mostro, una bestia; per altri una nave, una baracca, la “cosa”. Dotata di anima e forza propria, presenza onerosa che può stritolare, indifferente alle vicende umane che la attraversano, che si continua eppure ad amare, carica com’è di storie, vissuti, bellezza. La villa veneta è forma mirabile e presidio sul territorio, funzione (all’origine agricola) e ricerca (estetica), fulcro di un sistema così strutturato, e qualificante una società, da costituire nel tempo una civiltà. Per accostarsi a questo universo, bisogna tornare indietro. Riandare al cambiamento di orizzonte culturale che si produce nella seconda metà del Trecento, quando Petrarca abbandona Padova per andare a vivere tra i Colli Euganei. Fino ad allora, per gli uomini del Medioevo - che vivevano in città - la campagna era qualcosa di ostile da evitare, la “selva oscura” dove Dante si perde. Petrarca, con l’occhio lungo del poeta, rompe questo schema, si ritira in campagna, vive nella natura e la modifica pure perché si ingegna a fare il contadino. Con lui ha inizio il ritorno agli ideali classici della vita agreste, prende forma l’ideologia che serve al movimento ampio che si prepara. Con l’avanzata ottomana e la scoperta dell’America, Venezia perde centralità: smarrito il suo mare si volge verso terra. Si espande, espropria e acquista terreni, li trasforma anche grazie a un intelligente governo delle acque, impone la pax veneziana rendendo sicuri i luoghi conquistati. Costruisce presidi, aziende, abitazioni. Le ville sono l’emblema della riorganizzazione della potenza della Serenissima, l’avamposto della trasformazione del territorio. L’elogio petrarchesco legittima la campagna come luogo di armonia con la natura, spazio di produzione e di rappresentanza, più tardi anche di meditazione e di villeggiatura nella bella stagione. A metà del Cinquecento Andrea Palladio, scalpellino e poi architetto, diventa l’interprete massimo di questi bisogni, dando vita con il suo genio a ville concepite per aristocratici che devono stare in campagna per produrre. «Come tutti i grandi architetti, Palladio è colui che realizza i sogni dei suoi committenti», spiega Guido Beltramini, storico dell’architettura, direttore del Centro internazionale di studi di architettura (Cisa) Andrea Palladio di Vicenza. «La rivoluzione palladiana è aver saputo tradurre in forma architettonica queste esigenze, trasformando elementi funzionali già esistenti: la casa e le adiacenze, i giardini». Grazie a Palladio che crea un sistema di regole, basate su numeri e proporzioni, aperto, riproducibile, la villa veneta assume la sua forma matura, poi molto imitata. Gli epigoni saranno molti, anche all’estero dove la fortuna del Palladio è immensa. Gli esempi nel mondo di edifici di ispirazione palladiana sono infiniti: dall’Inghilterra del Seicento e Settecento alla Russia di Caterina II, dalle plantation houses americane del genere Via col Vento alla stessa Casa Bianca di Washington, fino ai parlamenti irlandese e indiano e a palazzi sparsi in Brasile o a Shanghai. Insieme a Howard Burns (palladianista, presidente del comitato scientifico del Cisa) Beltramini ha curato due anni fa una splendida mostra dal titolo: “Andrea Palladio e la villa veneta, da Petrarca a Carlo Scarpa” e cioè dal Trecento alle opere dell’architetto veneziano scomparso nel 1978. Se il fenomeno propriamente detto delle ville venete è collocabile tra il Cinquecento e il Settecento, l’orizzonte temporale della civiltà delle ville venete è più vasto e arriva ai nostri giorni. L’Istituto regionale delle ville venete ha censito oltre quattromila ville tra Veneto e Friuli (per il 90% di proprietà privata, per il 50% immobili monumentali vincolati), un sistema di beni culturali straordinario ma problematico. Andando in giro per le trafficatissime arterie che intersecano la pianura e si inerpicano su colli e pendici prealpine, si realizza come la bellezza sia ancora diffusa (dal 1996 le ville venete sono entrate a far parte della lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco), pur incalzata dalla modernità. «La battuta facile», per il direttore del Cisa, «sarebbe dire che il Veneto è passato dalla civiltà delle ville a quella delle villette geometrizie. Non dimentichiamo che il Veneto ha dato sei milioni di emigrati nel Novecento. Le ville sono la memoria del dominio perduto di Venezia. I contadini dopo la guerra arrivavano a demolirle e i piani regolatori fino agli anni ’80 non le hanno rispettate molto. Ma qualcosa dopo i tempi magri sta cambiando: la villa è radice e matrice di identità» ...
 
       
         
 
       








 

Dopo undici anni di restauro, riapre la Cattedrale di Noto, capolavoro del barocco. Reportage (testo+foto) sul National Geographic Italia del marzo 2007


Undici anni fa il crollo. Un pilastro riempito di pietre di fiume collassò e per effetto domino trascinò con sé altri piloni, facendo precipitare la copertura della navata centrale e gran parte della cupola. Era la notte del 13 marzo 1996, cinque anni dopo il terremoto che aveva colpito la Sicilia sud-orientale. Fu un miracolo, secondo molti, che nessuno rimase sotto le macerie alte cinque metri. Per Agatina Trigona, Marchesa di Cannicarao, Baronessa di Frigintini, nobildonna di Noto, «il vero miracolo il Padreterno lo fece facendo crollare la cupola. È stata la migliore pubblicità per Noto, prima scordata da tutti e poi finalmente riscoperta». Dalla distruzione, la rinascita; come dopo il terremoto del 1693 che annientò Noto antica (la scossa, a cui gli esperti assegnano oggi un’intensità pari all’undicesimo grado della Scala Mercalli, rase al suolo in pratica l’intera Sicilia sud-orientale). Allora, dalla ricostruzione, sorsero splendide città edificate in stile barocco, di cui Noto è ritenuta la “capitale”. Nel 2001 il cosiddetto “barocco del Val di Noto” è stato inserito dall’Unesco nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità. Questa volta il crollo della Cattedrale ha fatto convogliare attenzione e fondi nazionali, regionali, europei. Da una decina d’anni la cittadina vive in una condizione di continuo restauro. Anche Palazzo Trigona, uno dei più prestigiosi di Noto, è un cantiere. Nel salone delle feste, al piano nobile, tra scarpe, valigie, strumenti musicali, cravatte e vestiti da sera accatastati alla rinfusa per ripararli dai lavori che invadono gli altri locali, sotto la volta dai delicati affreschi settecenteschi, la baronessa e il suo compagno raccontano di feste da ballo alle due del pomeriggio («perché si viveva al ritmo del sole e si andava a dormire al tramonto»), di passaggi di registi e re: Antonioni e Zeffirelli, che a Noto girarono L’Avventura e Storia di una Capinera, e Ferdinando di Borbone, che veniva spesso a caccia in Sicilia, allora ricchissima di boschi, («era un cacciatore in due sensi, pure di giovane signore») e si fermava nel loro palazzo ...